L’emblematicità è l’elemento portante della ricerca e dei risultati pittorici di Pasquale Celona, giochi di tavole imbandite, trasfigurazioni poetiche, dove pare che l’artista voglia alleggerire il più possibile la fisicità degli oggetti in “volo” verso un viaggio fantastico, dalla decifrazione apparentemente agevole.
Ogni dipinto dell’artista vive di trasparenze, di giochi di luce. Egli evita i toni squillanti e privilegia tonalità come il giallo, il rosa, il bianco… Di radici Surreali, egli fa galleggiare il proprio mondo di oggetti, come un tributo all’invisibile in cielo.
Le sue Nature morte hanno, per l’appunto, la forza dello spirito. Come ricorda, con rigore filologico Mario Pepe, l’espressione italiana di natura morta traduce il termine di “Stilleven”, che circolava sin dal 1650 negli ateliers dei pittori olandesi e fiamminghi. È questo un antico genere pittorico. citato dal Vasari quando ricorda che Giovanni da Udine “riusciva a contraffare benissimo tutte le cose naturali d’animali, di drappi, di strumenti, vasi, verdure”.
Pasquale Celona è figlio, per l’appunto, di questa antica tradizione.
In apparenza – come dicevo – la sua è una figuratività leggibile. Nei suoi dipinti, infatti, un fiore è un fiore, un vaso è un vaso, una nuvola bianca, che si staglia eterea nell’azzurro del cielo, è una nube.
Ancora una volta, infatti, ci si trova a meditare su ciò che, in arte, è reale e su ciò che è apparente, sul visibile reale e sul visibile sognato.
È questo il motivo per cui desidero sottolineare che le “pagine” cromatiche di Celona sono figurali, ma solo in apparenza, anche se il rigore semiologico ci impone, pur sempre, il concetto che l’oggetto rappresentato è “cosa”, simbolo, e non può essere visionarietà.
Eppure cosa nasconde la simbologia di Pasquale Celona?
Quando si sono presentate, per la prima volta, a me innanzi le sue “nature morte”, ho subito notato che “oltre” al bel ricamo figurale non c’era, in fondo, quello che si chiama sostanza reale, ma una candida astrazione di tipo sacrale.
I suoi oggetti paiono, per l’appunto, sostanze eteree come le nuvole in cielo. Perché tacerlo?
Tutto intorno alla sue tavole imbandite si avverte la magia di una scrittura che potrebbe, per esempio, dissolversi se l’artista aumentasse l’accentuazione luminosa della campitura.
I palcoscenici di Celona. teatrini sognanti, sospesi a mezz’aria, vivono in una incantata orizzontalità metafisica, dove tazze, fruttiere, piatti, vasi, paiono dipendere gli uni dagli altri ma nel contempo si muovono, scivolano in modo impercettibile.
La dolcezza compositiva del dipinto, nasce soprattutto da questa sospensione dove pare sentire il sospiro dell’aria, in un costante gioco di contrappunti cromatici di azzurro, bianco, giallo, arancione.
C’è in Pasquale Celona una tentazione surrealista, una surrealità posta in chiave religiosa, in cui la mensa è innalzata, simbolicamente verso l’Alto.
Egli è pittore per l’appunto, che pare non sia più chiamato a svolgere un ruolo quanto a sorreggerlo per profondità, nel pieno di una vita-sogno.
La visione surreale di Celona predilige “le parti alte”, quelle pure, composite in una testimonianza condotta in una analisi spirituale.
È una ricerca non “contro” qualcosa, ma condotta in nome del Meraviglioso.
Ci conforta, in questo concetto, proprio André Breton, maitre-à-penser del movimento Surrealista, il quale nel Secondo manifesto, considera la purezza e l’integrità come condizioni essenziali dell’esperienza Surrealista: la sua attenzione nei confronti degli aspetti più insani e sconvolgenti del l’esistenza era, infatti, condizionata da questa scelta.
Pur rimanendo un eretico tranquillo, in questa surrealità, Celona rimane legato alla tradizione classica. Inventa apparenze e superfici tirate sino al rischio della trasparenza e riunisce i segreti della leggerezza del bello, una presenza dietro cui si nasconde il Divino.

 

POETIC TRANSFIGURATIONS,
TRANSPARENCIES, AND PLAYS OF LIGHT:
A TRIBUTE TO THE INVISIBLE
by Paolo Levi

Emblems are a key element within Pasquale Celona’s artistic research and pictorial outcome, featuring sumptuously laid tables that can be regarded as poetic transfigurations. In those images the objects appear to be almost weightless, to such an extent that they are ideally floating in a fantastic atmosphere, seemingly easy to explore thus captivating the viewer’s eye. The artist gives breath of life to each of his paintings through transparencies and plays of light. He avoids bold colours, and rather privileges delicate tones of yellow, pink, and white.
With a reminiscence of Surrealism, he makes his world of objects rise high as a tribute to the Invisible in the sky. Indeed, his Still Lives are permeated with spiritual strength. As Mario Pepe has remarked with philological thoroughness, the Italian definition of still life (natura morta) is a translation from the term “Stilleven”, used by Dutch and Flemish painters as early as 1650. Still life painting is a very old genre, mentioned by Vasari in his Vite while referring to Giovanni da Udine, who ‘succeeded so beautifully in imitating all natural features of animals, draperies, instruments, vases, vegetables…’.
Pasquale Celona draws upon that ancient tradition. As already mentioned, his figurative compositions are seemingly easy to interpret through visual analysis: a flower is a flower, a vase is a vase, a white ethereal c1oud standing against an azure sky is a cloud. Yet, the paintings in question also arouse some reflection on what is real and what is apparent in art – or, in other words, the visible in reality and imagination. I would therefore argue that Celona’s colourful ‘plates’ are figural representations, but only at first glance. Besides, from a semiotic standpoint it cannot be denied that any object within an image is to be seen as ‘thing’ yet a symbol, rather than a mere visual element.
So, what lies behind Pasquale Celona’s symbolism? When I first looked at his Still Lives, I immediately noticed that these beautiful, embroidery-like figurative compositions were bringing in a kind of candid, almost sacred abstraction rather than what is called ‘real substance’ in religious language. Celona’s objects, in fact, seem to be made of an ethereal substance resembling that of the clouds in the sky.
Why should we overlook such a peculiar aspect? All around Celona’s set tables we can perceive the magic of a spell that might dissolve, were the artist only to slightly increase the background colour brightness, thus break the enchantment he created within his pictures. Celona’s dreamlike ‘theatre stages’, which appear to be floating in the air, exist within an alluring metaphysical dimension where cups, fruit bowls, plates, and vases appear to gravitate toward one another, thus move imperceptibly to keep steady.
The delicacy of the artist’s composition owes, above all, to a sense of suspension: in the space where his painted objects stand still we can imagine hearing the sighs of a gentle breeze while seeing and endless counterpoint of blue, white, yellow, and orange tones.
There is, in Pasquale Celona, a flair for the surreal combined with a sense of the sacred. All this shows through his canvases in which the set ‘table’ (possibly a hint at the table of the Lord) has a symbolical, religious meaning in that said ‘table’ is ideally rising high to the highest Grace. In the light of all this, it appears that Celona is a painter no longer committed to playing a role in his theatrum, but rather sustaining it while showing his inner, dreamful life. Indeed, Celona’s surreal visions painted on canvas reflect his quest for spiritual ascent and purity.
Rather than being steered towards contrasting something, his artistic research is aimed at pursuing those aims in the name of marvel. Thus, it may be worth remembering the lesson laid by André Breton, maitre-à-penser of the Surrealist movement. Within the Second Manifesto he posited that purity and integrity were essential conditions for the Surrealist experience, which underpinned his attention to the most insane and unsettling aspects of human existence.
While being a quiet ‘heretic’ immersed in his own surreal world, Pasquale Celona has kept reviving classical tradition. Through visual representations envisaging glowing appearance and almost transparent paint layers, the artist has brought together the secrets of lightness in Beauty, which he perceives as presence within which lies the divine.

 

Estratto della presentazione di Paolo Levi in una trasmissione televisiva, 1996

Farei un piccolo preambolo: sta per finire il secolo […] ed è l’ora di fare bilanci. Dieci anni fa ero un po’ preoccupato perché sembrava quasi che questo secolo finisse con la profezia della fine dell’arte, della morte dell’arte, della fine della pittura come se avesse soltanto diritto di udienza la sperimentazione, la ricerca. Mi chiedevo, ma è finita allora la gioia della pittura, la gioia di dipingere a olio su tela?
Ci sono stati dei giovani che si sono buttati a operare sulla tela, pensiamo ad esempio agli artisti della Transavanguardia portati avanti da Achille Bonito Oliva e ai Nuovi Nuovi di Renato Barilli. C’erano poi degli artisti, giovani e meno giovani come Pasquale Celona. Appena ho visto la sua pittura mi sono detto: “è ‘cugino’, a livello di nobiltà pittorica, con Salvo [Salvatore Mangione, 1947-2015]”, il quale è un artista “popolare” però sostenuto da un certo collezionismo. Questi due pittori meridionali, che non si sono mai conosciuti né incrociati (Celona vive a Firenze, Salvo a Torino), hanno portato dal sud questa solarità e questo modo di recuperare la tavolozza: la stesura, l’impianto, il rapporto oggetto-spazio, come vengono fatti i fondi, l’uso non del disegno preparatorio bensì del colore che è già subito segno e segnale di ciò che verrà.
[È] una tavolozza molto bella, [quella di Celona], con dei colori estremamente complessi. C’è infatti molta elaborazione, ovvero esistono dei contrappunti cromatici e delle sfumature dosate. Userei il termine quasi musicale di tonalità o timbricità poiché si notano degli alti e dei bassi cromatici, proprio come in musica. C’è una gioia che è la gioia del sud, ma c’è anche la malinconia del sud, in contrapposizione. La sua è una collocazione novecentista.
Ma di quale Novecento? Non il primo Novecento. Possiamo invece collegare Celona con il Novecento che giunge con il giovane [Giuseppe] Cesetti [1902-1990] degli anni ’20 e ‘30. […] Quando parlo di Cesetti parlo di quel pittore che visita il museo italiano rinascimentale, cioè questo modo di concepire l’oggetto, la natura o la figura in chiave metafisica, in chiave di assenza [in una dimensione] sospesa quasi come se ci fosse luce ma senz’aria, assolutamente non realistica. Direi dunque quattrocentesca, del pieno Umanesimo più che del Rinascimento. In più c’è questo suo modo asettico e armonioso: è un pittore apollineo Cesetti, che visse a Parigi portandosi dietro questa nostalgia, questa malinconia della sua Italia. Celona, che vive a Firenze, non ha nessuna nostalgia del museo toscano, ma ha nostalgia della luce della sua terra. […]
Quello che manca a Cesetti ce l’ha Celona nel senso che ha portato luminosità.
Che cos’è questa luminosità, però… è soltanto luminosità della terra o è un altro tipo di luminosità? Celona è un pittore squisitamente religioso. Cioè, la sua iconografia è una iconografia che ha due facciate. Una ovviamente intimistica, molto privata, come se fosse musica da camera. L’altra [riflette] un modo di concepire l’immagine come se fosse una visione di oggetti immessi nel quadro, da offrire a livello sacrale o sacrificale o al Signore. Celona, mi diceva poc’anzi, non è religioso ma è religioso quando dipinge […].
Celona mi è caro per i quadri che fa e mi è caro per la sua timidezza, che è legata alle sue opere. Se lui fosse come i suoi quadri lo considererei insincero. Il fatto che lui sia così chiuso come carattere e così serio, severo, ma con questo tipo di quadri così solari, vuol dire che la sua anima è quella dei suoi quadri. Proprio per questo, allora, la sua anima non è ripetibile – e non può essere il suo quadro copiato. Celona, dunque, ha una sua autonomia creativa. […]
Ci sono degli artisti, e Celona è uno di questi, che sono completamente soli, proprio come erano soli i pittori Romantici. [Costoro] non sapevano di essere Romantici e non sapevano neppure di essere soli ma erano dentro di sé profondamente corretti e profondamente onesti per cui la loro solitudine è stata poi riscoperta non tanto dalla critica d’arte degli anni successive quanto dal collezionista, che era altrettanto solo rispetto al pittore. E il collezionista solo ha parlato con la solitudine del quadro. Dunque il rapporto tra quadro, collezionista e artista è un dialogo tra soli. […]
Le figure di Celona non sono figure, cioè sono delle sembianze di figure così come i vasi sono sembianze di vasi e i fiori sono sembianze di fiori. [Egli] è un pittore allusivo: essendo un poeta, è un “trasfiguratore£ per cui tratta la figura con la stessa poeticità e sensibilità che si ha per una natura morta.[…] La [sua] natura morta, l’oggetto, vive in uno spazio psicologico intimistico. Nel paesaggio la luce è più dirompente, quindi diventa un “ricamo” diverso, [dove si cela] lo stato d’animo dell’Artista. Invero, i suoi stati d’animo mutano, come le corde di un violino: il passaggio della tavolozza da una Marina a una Natura morta che appare sospesa, pertanto, non è così dirompente ma ha una sua giustificazione con una variabilità di tonalità sempre musicali – un po’ più alto, un po’ più vibrante…
[Eppure], non sono mai le “corde” della sua mente, bensì le “corde” di questo suo cuore misterioso, calabro e ormai toscano.